venerdì 1 marzo 2024

Non essere più colonia: una questione di educazione #terza parte | CULTURA

Non essere più colonia: una questione di educazione #terza parte

L’uso del calcolatore

È innegabile che il calcolatore è ormai indispensabile per ogni attività e, specialmente, nel trasferimento della conoscenza scientifica e tecnica, ovvero per l’educazione a tutti i gradi di formazione. Non serve illustrarne i notevoli vantaggi, è invece opportuno discuterne gli inconvenienti. In particolare, è utile analizzare i limiti che riguardano sia la comunicazione scientifica che l’efficienza educazionale.

Gli studiosi fino a pochi decenni fa usavano carta, penna e la stampa tipografica. La carta e la penna servivano per fermare le idee e sintetizzare i ragionamenti. Sono ben note le pratiche di scienziati che tramettevano i loro pensieri scarabocchiando su tovagliolini di carta o ricevute del ristorante. La carta o solo la penna erano anche importanti per gli studenti che prendevano appunti alle lezioni o sottolineavano e scrivevano note a margine nei libri.

Per la comunicazione scientifica, la stampa tipografica ha fatto da padrona per centinaia di anni. C’erano (e ci sono tuttora) libri di testo, riviste scientifiche, manuali, tutti ben classificati in biblioteche. Il sistema non era ottimale, dato che che l’accesso all’informazione era spazialmente limitato ed era economicamente problematico. Ma chi voleva e aveva risorse, superava gli inconvenienti e, eventualmente, aveva una propria biblioteca personale di piccole o anche grandissime dimensioni. 

Ci sono molti vantaggi nell’uso della carta stampata. I libri sono di facile uso, richiedono attenzione e concentrazione, emanano sensazioni che vanno oltre al messaggio letto, come l’odore della carta, il tatto e il fruscio delle pagine. I libri consentono pause, la loro lettura è cadenzata dal lettore, rendendo facile la rilettura di particolari già letti. Infine, un aspetto di fondamentale importanza, è la durabilità nel tempo. 

Pur essendo “fragili” i libri resistono all’usura del tempo per centinaia di anni. Io, ad esempio, ho, tra gli altri, riposti su uno scaffale, un libretto intitolato Teatro Antico Italiano (tomo secondo) stampato a Londra nel 1786, una copia del primo volume della Divina Commedia del 1852 (Tipografia di Pietro Fraticelli) e Gli amori pastorali di Dafne e Cloe, tradotto da Annibale Caro e stampato nel 1800. In biblioteche molto più serie si trovano pubblicazioni ben più remote. Non è forse chiaro a cosa servano queste anticaglie, dato che, se utili, si possono scansionare e metterle in rete. Poi, si possono anche bruciare. Il loro significato, comunque, è che la forma tipografica dell’informazione dura tantissimo e, molto più importante “lascia un segno”. E questo, a mio avviso è la cosa più rilevante.

Con l’avvento del calcolatore e con la credenza che la carta danneggi l’ambiente, il modo di comunicare è completamente cambiato. Le scritte e le figure nascono e muoiono in pochi minuti sopra di un monitor o un display, senza dare la possibilità di annotazioni o sottolineature. Le lezioni e le presentazioni sono fatte con schermate che si susseguono velocemente senza avere (tipicamente) il tempo di una reale comprensione. Nel campo scientifico il tradizionale scambio di informazioni tra studiosi che era attraverso pubblicazioni cartacee, la ricerca nei cataloghi delle biblioteche, la discussione nei convegni e seminari, è diventato tutto informatico. 

I documenti sono quasi esclusivamente digitali, disponibili ovunque e trasferiti direttamente nella casa o nell’ufficio dell’utente. Si dice che, oltre che ridurre i tempi di comunicazione, si ha una diminuzione dei costi. Gli autori possono trasmettere direttamente il contenuto di un articolo, lo aggiornano e interagiscono per il suo miglioramento usando strumenti informatici. Bel vantaggio, la velocità esecutiva! O, … forse, no.

La circolazione delle idee è resa semplice e immediata, ma il problema è la qualità delle idee. Purtroppo, le società moderne misurano l’innovazione a peso, indipendentemente dalla qualità. Nelle università si avanza in carriera se si pubblica tanto e con certi buoni parametri che, ahimè, hanno una minima relazione con la qualità, quella che dura nel tempo. Il risultato è che di documentazione scientifica ce n’è in abbondanza, e districarsi diventa quasi impossibile.

Un aspetto essenziale riguarda il diritto d’autore (o copyright). Questo, se si vuole pubblicare, viene ceduto alla rivista o all’editore. Una volta, tale cessione mirava alla diffusione reale della conoscenza attraverso la stampa tipografica. Chi acquistava il libro o la rivista aveva la reale disponibilità del prodotto nella forma di scritto su carta. Oggi, invece, il prodotto è disponibile in modo virtuale. Solo se si scarica il testo si ha una reale disponibilità, pur informatica. Frequentemente, i testi sono letti sul monitor e, al massimo, vengono spediti su quella frazione di nuvola che si ha a disposizione. Il risultato è che la cessione del diritto d’autore non è per una effettiva distribuzione della informazione ma per creare, in pratica, un monopolio egemonico di chi prende il possesso dei dati. 

Una rilettura di un testo, che è gratuita nel caso di carta stampata, invece, dipende dalle regole dell’egemone che verifica se l’abbonamento è ancora valido, può stabilire nuove regole d’uso, decidere di cancellare l’informazione o negarne l’accesso.

La durabilità è un altro fattore critico. I metodi di conservazione dei dati evolvono nel tempo. Negli anni ’50 c’erano i nastri magnetici, Poi vennero gli hard-disk. Negli anni ’70 si usavano i floppy disk, seguiti poi dai CD-ROM, dai DVD e più recentemente dalle chiavette USB e le memorie flash. Infine, (per il momento) ci sono i servizi di cloud storage. Memorie remote dove l’utente “salva” i propri dati accedendo con una connessione web. A questo punto è lecito chiedersi quanto si sia salvato dei dati che erano, ad esempio, sui floppy disk di tempo fa. Io, personalmente, ricordo di averne buttati in gran quantità, senza avere la possibilità pratica di cernita e di trasferimento su supporti più moderni. Il risultato è che la durabilità dei dati è poco più di una generazione delle unità di “conservazione” dei dati stessi. Al massimo vent’anni.

Una conseguenza “a latere” è che l’uso del computer non “lascia segni”. Una civiltà è caratterizzata da “segni” che i posteri ammirano con stupore. Ci sono siti archeologici e grandi realizzazioni che vengono visitate da migliaia di persone. I musei raccolgono oggetti e manufatti prodotti dagli antenati. Nelle università ci sono raccolte di strumenti scientifici e manoscritti di scienziati famosi. L’era attuale, al contrario, non lascia nulla! Non ci sarà nulla di cui ricordarci! C’è solo del software e quel poco di hardware che c’è diventa obsoleto e gettato via poco dopo. E questo, da un punto di vista sociale, non è un gran risultato: saremo considerati una generazione invisibile.

Cambiare il paradigma scientifico educazionale

La conclusione di questa lunga analisi della modernità è che esistono, in aggiunta ai vantaggi, delle negatività significative. Cosa fare, specie per l’educazione tecnico-scientifica, è un argomento di urgente analisi. Solo un dibattito e attente proposte possono trovare la via da seguire.

Non essere più colonia: una questione di educazione #prima parte | CULTURA

Non essere più colonia: una questione di educazione #seconda parte | CULTURA

Scritto da Franco Maloberti

Franco Maloberti. Professore Emerito presso il Dipartimento di Ingegneria Elettrica, Informatica e Biomedica dell’Università di Pavia; è Professore Onorario all’Università di Macao, Cina, dove è stato insignito della Laurea Honoris Causa 2023.

Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore, che non corrispondono necessariamente a quelle de "Lo Schiaffo 321". Immagini tratte dalla rete. Fonte: ariannaeditrice.it

Nessun commento:

Posta un commento