domenica 5 settembre 2021

FASCISTS’ CRIMINAL CAMP | Racconto di Roberto Mieville (1947) - STORIALTERNATIVA Capitolo 8

FASCISTS’ CRIMINAL CAMP

CAPITOLO 8

Correvano da più di un'ora i prigionieri di guerra. E gli M.P. con i Thompson's puntati facevano molta attenzione a che nessuno rallentasse l'andatura. Al di là del reticolato si vedeva un'immensa distesa di baracche e oltre quelle campi di carri armati e camions e cannoni e uomini. Migliaia di uomini dappertutto. Era il campo di addestramento di Fort Bliss e quei prigionieri continuavano a correre, mentre gli M.P. sorvegliavano attenti.

Il Capo Capriotti era in testa alla fila. Come gli altri aveva tanta sete ed era sfinito. Le ferite avute ad Alessandria d'Egitto quando era andato a silurare la “Valiant”, gli dolevano anche per le botte ricevute il giorno prima. 

“Cooperazione forzata”. Sfinirli con la corsa o con la sete: un sistema come un altro per fiaccare, gli animali. Correre. Correre, senza sosta, per ore e ore. Chi cadeva veniva coperto di botte e portato -via, all'Ospedale. “Cooperazione forzata”. Tanta sete e tanta stanchezza. 

E gli M.P. che si davano il cambio ogni mezz'ora, e guai a rallentare l'andatura.

Passarono le ore e venne sera. E pochi erano rimasti in piedi. Capo Capriotti continuava a tirare la corsa: le labbra sanguinavano, ma il cuore non voleva cedere. C'era la luna quando gli M.P. dissero di smettere la corsa. Nove ore aveva durata la corsa. Nove, ore! E per le baracche piene di lamenti, gli M.P. passarono a chiedere la collaborazione. Gli uomini non avevano più respiro. Ma per tutti Capo Capriotti rispose:

- Neanche se ci ammazzate, cani!

L’M.P. gli diede un colpo sulla testa con la mazza. “Cooperazione forzata”. Si stancarono gli M.P. e si stancò il comando del campo.

- Very soldiers'.

Già da tredici giorni quei mille uomini erano a pane e acqua. Lungo il recinto esterno correva la strada che portava a El Paso e numerose erano le macchine civili che si fermavano. Era un bello spettacolo quello di quei mille uomini distesi per terra immobili. Ed era bello sentirli cantare. Cantavano ogni volta che entravano gli M.P. a portare l'acqua e il pane. 

C'era il tenente Strohn che si era assunto l’incarico di fare “cooperare” quei fascisti a tutti i costi e c'erano gli M.P. armati di mazza che aspettavano fuori del recinto.

Capo Capriotti aveva visto quello spiegamento dì forze e osservava. Vicino a lui il caporale Leonardi, un ragazzone alto, grosso e buon pugilatore. Il tenente Strohn finalmente apre il cancello del recinto. Contemporaneamente gli M.P. si schierano su una unica linea e imbracciano i Thompson's. Il tenente Strohn, abbondantemente armato, entra nel campo e si avvicina, a uno di quegli uomini stesi a terra.

- Alzati, cane! - gli dice.

L'uomo steso a terra lo guarda e non si muove e allora il tenente Strohn lo colpisce violentemente sui fianchi con la mazza. Gli altri uomini si alzano a quella provocazione e cominciano a muovere verso l'americano. Ma primo fra tutti il caporale Leonardi. Arriva di corsa e si pianta davanti all'americano.

- Perché l'hai picchiato?, chiede. 

- Perché, vigliacco?

Il tenente Strohn alza la mano per colpire l'uomo, il “gringo”, che osa parlargli in quel modo, ma l'uomo fa un passo indietro e lo colpisce con un violento destro in pieno viso, L'americano cade a terra e rimane immobile. Dal cancello entrano di corsa i soliti indiani comanchi vestiti da M.P. e si buttano addosso caporale Leonardi. Ma il caporale Leonardi ne atterra parecchi. Poi l'hanno sopraffatto e l'hanno portato in una stanza del comando americano. E' solo e di fronte a lui sono otto americani armati di mazze di caucciù. Gli dicono di chiedere scusa. Ma Leonardi non è un uomo da piegarsi e allora gli sono addosso!

Quante botte, quante botte! (Non camminavi più il giorno dopo caporale Leonardi e da quel giorno hai cominciato a declinare o la memoria ti abbandonava e dopo un mese dal rientro in Patria sei morto, Morto pazzo per le, botte di allora, signori del Governo!).

A Marana nell'Arizona, c'era un altro campo non collaboratori. E c'era anche un ospedale dove ricoveravano gli ammalati di T.B.C che non avevano aderito alla collaborazione. Se avessero aderito li avrebbero mandati nel Colorado o a Santa Fè dove l'aria è buona non lì nell'Arizona dove il clima era soffocante, quasi quanto quello della depressione di El Cattara.

In uno dei ward's dell'ospedale c'era un tenente che stava per morire. Già da molto tempo lo stavano torturando perché collaborasse. Ogni sorta di cose gli dicevano. Che la famiglia sua ora era sotto gli americani e che so lui rimaneva in quell'atteggiamento ostinato l'avrebbe molto danneggiata. Ma il tenente non ne voleva sapere. Diceva:

“Non mi importa. Io non mi vendo. Resto quel che sono ”.

Ora era l'agonia. Al suo capezzale c'era padre Daniele Dal Sasso del V Bersaglieri e il maresciallo Moriondo, il capo campo. Ormai aveva avuti i santissimi sacramenti. Sapeva che stava per andarsene e mormorava dolci parole per i suoi di casa. Padre Daniele lo confortava e gli parlava di Dio e della salvezza eterna. Era sera tarda e l'aria era ancor più calda e opprimente. L'agonia durava frammista a momenti di lucidità piena. Nel ward entra anche il cappellano americano, don Barbato, con un foglio in mano: “L'I Promise”: la scheda di collaborazione, e si avvicina al moribondo e gli dice: Salvati... Salvati e salva i tuoi...firma...

Padre Daniele Dal Sasso insorge inorridito.

Non bestemmiare... non bestemmiare... ”, ma il prete italo-americano non se ne dà per inteso e insiste, insiste con le parole più atroci e tortura gli ultimi attimi del moribondo con un, insistente “Collabora... collabora... collabora”.

La morte libera finalmente il povero tenente. L'ha sepolto Padre Dal Sasso nel piccolo cimitero dell'Ospedale di Marana. E ai suoi compatrioti hanno proibito di accompagnarlo all'ultima dimora. Povero camerata nostro, le tue ultime parole sono state: “Non mi torturare...Non mi torturare, resto fascista... ”.

Il sole era alto e il caldo opprimente. Il campo era deserto come il paesaggio attorno che era rotto solo da qualche cactus gigante. All'ingresso del campo, proprio sopra il capo della guardia, c'era il nome: Florence POW Camp. E anche a Florence, in piena Arizona, a qualche chilometro, da Marana, prigionieri non collaboratori. Ma anche a Florence c'era l'ordine dell'VIII Servizio del War Department Cooperazione forzata. Certo che ad ogni Comandante di Campo era lasciato quel tanto di margine perché potesse mettere meglio in luce le sue qualità e le sue iniziative. Il comandante del campo era del Nuovo Messico e da suo padre che era un indiano della Peoria aveva imparato molte “finezze”. 

Sorrideva il comandante del campo di Florence a quel suo “sistema” per indurre alla cooperazione quei maledetti fascisti...

A qualche chilometro dal campo i prigionieri italiani, dopo una corsa estenuante nella sabbia, erano stati inquadrati dagli M.P. e attorno al blocco era stata tracciata una linea. Gli M.P., il Thompson puntato, il sole alto, la sete e guaì a sedersi. Guai a passare quella linea. A qualche metro dalla linea un camion aveva scaricato un bidone d'acqua. Passavano le ore e gli M.P. ridevano di gusto a vedere quei maledetti italiani contorcersi e sforzarsi di non cadere.



(Qualcuno era svenuto per un improvviso colpo dì sole e l'avevano portato al campo dove appena rinvenuto gli avevano sottoposto la scheda di collaborazione). Fu verso il tardo pomeriggio che uno di quei prigionieri fece un passo avanti, verso la linea. Forse quel prigioniero non voleva passarla. Non si è mai potuto sapere cosa volesse perché un colpo di Thompson lo stese a terra.

Bravo quell'M.P.: con un colpo solo l'aveva azzeccato!

L'indiano della Peoria che, comandava il campo invitò l'M.P. a cena, quella sera. E quella sera stessa, nel cimiterino contornato di cactus, fu scavata una fossa. Misero una croce e Padre Daniele recitò le preghiere. Là in Arizona c’era una farm. Una donna era la padrona. Una donna giovane che veniva spesso al campo di Florence a bordo di una lussuosissima Ford. Veniva a prendere dei prigionieri ogni giorno per i lavori nella piantagione di cotone. Era obbligatorio quel lavoro--- “Convenzioni di Ginevra”: 

i soldati sono obbligati in lavori che non siano di produzione bellica. Obbligati a lavori da schiavo come quello della raccolta del cotone! 


Ma la giovane donna amava avere attorno a se quei bei ragazzi robusti, non solo per il lavoro nelle piantagioni. Sono molti quelli che potrebbero raccontare qualcosa di una certa farm...

Per molto meno di una caramella... quella giovin signora. Per molto meno. 

Anche con qualche nero, quella signora che veniva al campo di Florence in una lussuosa Ford e con il frustino indicava il prigioniero che voleva quel giorno. Al tempo di Morgan, nelle Barbados, facevano nello stesso modo le figlie dei nobili inglesi delle colonie. 

Qualche schiavo nero, qualche schiavo bianco, tanto per passare il tempo in attesa del matrimonio.

Intanto ora venuto l'inverno e la neve aveva preso a cadere abbondantemente. Ad Hereford giungevano prigionieri da tutti i campi periferici per svernare. E in quei giorni arrivò una, cartolina dal campo 25 in India. La data era 8 settembre 1944 e il testo diceva: 

Anche per noi questo è un giorno di lutto. 

E in una notte di tormenta suonò l'allarme. Ben presto i campi furono pieni di M.P. e tutti i prigionieri nella neve. 

Perquisizione. Perquisizione e verifica se tutti gli indumenti indossati portavano la prescritta stampigliatura, di P.W.  E con la neve che cadeva gli M.P. imbacuccati si divertirono un mondo a far e spogliare quelle “bestie italiane”. “Bestie italiane”, dicevano. 

Ma ad Anversa c'era la ritirata e i prigionieri lo sapevano e speravano. Speravano tanto e sopportavano. La neve cadde per molti giorni e quando fu gennaio i reticolati vennero tagliati, da tre ufficiali. Arrivarono a Los Angeles quei tre ufficiali.

Scritto da Roberto Mieville 

Roma, 1947

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