sabato 25 settembre 2021

FASCISTS’ CRIMINAL CAMP | Racconto di Roberto Mieville (1947) - STORIALTERNATIVA Capitolo 9

FASCISTS’ CRIMINAL CAMP

CAPITOLO 9

La neve se ne era quasi completamente andata. Rimaneva qualche chiazza bianca al riparo delle dune o nei fossi, ma era ormai questione di qualche giorno e poi tutto il paesaggio sarebbe stato pulito e sgombro. Anche il “tornado” aveva principiato a mulinare sull'altipiano del Texas

Gli uomini erano costretti nelle baracche per quel gran vento di sud ovest e continuavano nei loro passatempi invernali. C'era chi aveva scritto addirittura dei romanzi. Un libro era divenuto famoso infatti. Era il libro di Giuseppe Berto: “Il cielo è rosso”. Su quel libro l'autore contava molto. Una volta tornato in Patria si sarebbe presentato a uno dei grandi editori e avrebbe detto: 

Sono stato dieci anni a servire il mio paese in Africa. Ho perso tutto. Pubblicatemi questo libro e farete fortuna ”. 

C'era anche chi aveva continuato solamente a sognare sul passato e che diceva che il mondo si era fermato. Tutto procedeva tranquillamente dunque: pareva che gli americani avessero finalmente capito che “lì nessuno mollava” e non avevano più insistito con la storia della collaborazione. 

Nei campi si parlava persino di un prossimo ritorno. Prossimo: appena finita la guerra. Lo si capiva che la guerra era alla fine e che ormai non c'era più speranza di vittoria. V1, V2, cose belle, cose grandi che non avrebbero potuto modificare il corso degli eventi.

Era dunque tornata una certa “diffidente” serenità nei rapporti con il detentore e veramente inaspettato giunse il provvedimento che tagliava quasi completamente i viveri. Cosi, dalla sera alla mattina, a 500- 600 calorie complessive, tutti, vecchi e giovani. 

Il War Departement era deciso a farla finita! Falliti i tentativi con la “starvation” morale provava con la “starvation” fisica. 

Forse colpiti nel fisico quegli ostinati avrebbero ceduto e sarebbero venuti a patti. Le normali attività dei campi cessarono quasi di colpo. Niente più sport, niente più letture. In poco più di un mese tutti erano stati ridotti al limite delle forze.

Non valsero le proteste in nome delle Convenzioni di Ginevra, firmate dal prof. Gabitto e sottoscritte dal generale Scattaglia.

Ginevra? Non c'è Ginevra per vinti... 

(Intanto la campagna di stampa contro, i prigionieri assumeva un tono quanto mai cattivo reclamando provvedimenti draconiani e immediati).

La, percentuale della popolazione dei campi era composta di giovani dai 16 ai 35 anni e ancora una volta il prof. Gabitto fece presente le gravi conseguenze che stavano derivando per la mancanza di nutrimento. Cominciò il C.M. Lucotti con il T.B.C. Intanto la guerra precipitava. Roosvelt era morto e il Reno era stato passato. E un giorno si sparse la dura, tragica notizia. Chi non pianse quel giorno nel campo?

-E' morto! L'hanno assassinato!

In quei giorni gli americani si dimostrarono, per la prima volta dei soldati. Non mancò ufficiale americano che, davanti al nostro dolore, non si sia sentito in dovere di deprecare l’orrenda fine e di fare a dei veri soldati, le più sentite condoglianze d'un soldato ”.

Il 30 aprile il campo celebrò un rito. Non c'era prete per poter e dire una messa. Ma davanti a un catafalco coperto con i colori della Patria, fu cantata la preghiera del Legionario e un Ave Maria fu mormorata per tutti dal capitano Secolo del 31^ Guastatori. E da quel giorno il campo fu in lutto.

Il New York Times dedicò agli italiani questa testata su sei colonne: 

“Gli italiani hanno sputato su Mussolini, il mondo dove sputare sugli italiani”.

Questo per non dire parole dei commenti del Chicago Herald Tribune e del San Francisco Examiner, Si distinsero come sempre il Mondo e la Voce del popolo: settimanali in lingua italiana che riportarono spesso dei pezzi di quel tale conte Sforza delle Brigate Volontarie per liberare il paese.

Ora il Paese era libero!

Era libero il Paese di subire l'onta di Esperia e Montefiascone.



Passò qualche tempo ancora e dato che l’Italia si considerava in stato di guerra con il Giappone, il War Departinent, che non aveva ceduto di una linea nei provvedimenti affamatori, chiese agli Italiani di cooperare contro il Giappone.

Era evidente che il War Department sprecava il suo tempo. Sprecava il suo tempo anche se i prigionieri non erano più in grado di stare in piedi per la grande debolezza. Non poteva spaventare lo spettro della T.B.C. al punto di cedere e venire meno all'impegno d'onore assunto reciprocamente di resistere in quella linea di condotta fino alla fine della prigionia. E le vessazioni in grande stile ripresero dunque nel giugno del '45.

Cominciarono con la storia del saluto romano. “E' proibito il saluto fascista. I prigionieri saluteranno come si usa nell'Esercito Americano”. Fu fatto osservare che il Regolamento italiano prescriveva che a capo scoperto si doveva salutare romanamente e che nessuna modifica era stata portata a conoscenza in nome della Repubblica.

Quale repubblica,? Come non c'è la Repubblica in Italia No? E' finita! Ore c'è di nuovo il Regno?

Ah, si! Bene allora, ci dispiace, ma noi siamo della Repubblica e...

Diventarono lividi di rabbia gli americani! Lividi fino al punto di arrendersi dopo il fatto ”Plaisant”.

Il fatto “Plaisant”.

Il tenente Plaisant, un sardo, passeggiava tranquillamente per le strade del campo e seguiva il corso dei suoi pensieri, pieni della speranza grande di un sollecito ritorno. Entra la macchina del Colonnello Calworth e si ferma a pochi passi dal tenente che senza guadare passa oltre. Il colonnello scende.

Ehi! Ehi, grida.

Il prigioniero Plaisant si ferma: lo esamina bene: vede che è il colonnello, fa un passo indietro e alza il braccio in un perfetto saluto romano. Numi dei cielo! In quattro e quattro otto in carcere, a pane e acqua, il prigioniero Plaisant.

Quindici giorni.

Al termine dei quindici giorni, il prigioniero, Plaisant, viene riportato davanti al colonnello. Il prigioniero entra: guarda in viso il colonnello, batte i tacchi e alza il braccio nel saluto. Numi del cielo. In carcere: quindici giorni pane e acqua.

Al termine dei quindici giorni...

Il colonnello si stancò e dopo quarantacinque giorni rimandò il prigioniero Plaisant nel campo. Chi la dura la vince. O meglio “Vince sempre chi più crede, chi più a lungo sa patir... ”.

Il mesi passavano lenti. Cooperazione forzata. Cooperazione, collaborazione, ordini del Governo del Re. Lettere dell'Ambasciatore Tarchiani presso gli USA: niente da fare, i prigionieri non si muovevano d'un palmo. Che doveva fare il buon Calworth se non ripigliare i sistemi dell'anno precedente? E di nuovo i sistemi di Fort Bliss, di Marana, di Florence. 

Ancora soprusi, bastonature: segregazione.

Nei campi i prigionieri, erano già arrivati a mangiare le cavallette e la paglia e all'ospedale non ricoveravano più nessuno, Crepate cani italiani!

Il cimiterino di Hereford cominciava a contare parecchie croci. Piccole croci bianche a un paio di chilometri dal campo: per l'Italia!

E a Santa Fè, al tubercolosario erano stati avviati parecchi dei soldati costretti ai lavori nelle fonderie. (Alle fonderie di Dallahrt, senza vesti di protezione e alla fine 500 calorie a base di soia, signori del Governo!). 

Nel Campo 6 da quaranta giorni, all’aperto, trecento sottufficiali vivevano a pane e acqua e non mollavano. Nel Campo ufficiali era la medesima cosa: BOIA CHI MOLLA!

E a tutto questo le perquisizioni a notte piena, le manganellate a tradimento come capitò al tenente Busia che stava seduto a pensare alla sua mamma proprio sulla porta della Baracca Chiesa.

Libera, democratica America che ha fatto scrivere questa lettera a un combattente della sua armata navale. Lettera pubblicata nella rivista Life il 5 novembre 1945. Scrive il guardiamarina John Henry Holt da San Francisco:

  Signori, ho perduto il timore della morte a Guadalcanal. Ho perduto il mio migliore amico a Okinawa. Ho perduto una gamba a Iwo Jima. E ha perduto la fede nella democrazia americana dopo avere letto il vostro articolo sui prigionieri di guerra. Perché ho combattuto?”.

Scritto da Roberto Mieville 

Roma, 1947

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