lunedì 11 dicembre 2023

Distopia orwelliana e propaganda. A proposito di una «inconscia falsificazione» | POLITICA

Distopia orwelliana e propaganda

A proposito di una «inconscia falsificazione»

Pochi anni dopo la difficile esperienza della Guerra Civile di Spagna, i coniugi Orwell, prima la moglie Eileen e dopo lo stesso Giorgio, iniziarono a lavorare a Londra per i servizi di informazione britannici. La moglie, per il Ministero dell’Informazione (Dipartimento della censura) dall’inizio delle operazioni di guerra del 1939, mentre Orwell venne assunto dall’Eastern Service della BBC [1] nell’agosto del 1941; un incarico, quello di autore e speaker per l’emittente nazionale britannica, che si sarebbe più tardi rivelato cruciale per l’ideazione dell’universo distopico descritto in 1984.

Durante la guerra di Spagna e oltre, lungo gli anni del conflitto mondiale, Orwell sostenne sempre la necessità di intendere la guerra come un’occasione unica per il riscatto delle classi disagiate. Il patriottismo, parte integrante della sua coscienza politica, venne costantemente ridimensionato nelle sue opere e interventi giornalistici in favore delle rivendicazioni dei ceti subalterni, e sempre in una prospettiva socialista. La sua fervente convinzione che alla guerra dovesse corrispondere un processo rivoluzionario non era però destinata a sopravvivere alla guerra.

All’inizio del 1945, la rivista americana di sinistra «Partisan Review» pubblicava la London Letter nota per il passo, molto significativo, in cui Orwell confessa: «Ho provato a dire la verità» [2]. Di questa lettera colpisce proprio l’improvviso ripensamento rispetto alla guerra considerata da una prospettiva rivoluzionaria [3]. Se appena due anni prima, sempre alla «Partisan Review», aveva scritto «Non possiamo vincere la guerra con la struttura economica e sociale che abbiamo al momento» [4], adesso, di fronte alla dissoluzione della Germania Nazionalsocialista e a pochi mesi dalle atomiche sul Giappone, Orwell confessa di «essere caduto nella trappola di dare per scontato che guerra e rivoluzione fossero inseparabili» [5]; e, poco più avanti nella stessa lettera, arriverà a dire che, «rispetto ai mutamenti sociali che si stavano sviluppando», aveva dato vita ad una «inconscia falsificazione» [6].

Di fatto, dopo la guerra, Orwell non tornò più a promuovere attivamente la guerra rivoluzionaria. Le sue condizioni di salute si fecero via via più instabili e, soprattutto, il suo coinvolgimento nel mondo dei servizi britannici si fece sempre più intenso; a tal punto che lo stesso 1984, da una prospettiva biografica, è stato da più parti letto come un resoconto in chiave distopica di tale coinvolgimento. Alla BBC Orwell ebbe infatti modo di comprendere, dall’interno, quali fossero le reali dinamiche del potere e della comunicazione e la persistente pressione esercitata dalla politica e dalla diplomazia sugli addetti alla propaganda [7].

D’altro canto, se la sua presenza alla BBC può sembrare un fatto anomalo, va ricordato che nel contesto della propaganda bellica di quegli anni, gli atteggiamenti politici di marca socialista venivano relativamente tollerati dalle autorità; prova ne è il fatto che molte delle emittenti controllate dai servizi britannici erano dirette da esponenti del Socialismo inglese. Si veda a tal proposito il caso delle Freedom Station [8]. A livello geopolitico e strategico la momentanea alleanza tra Anglo-Americani e Russia Stalinista, tanto detestata da Orwell, aveva inoltre portato ad un parziale ammorbidimento nei confronti degli esponenti del Socialismo in molti settori dell’informazione alleata [9].

Di fronte ad uno scenario di questo tipo, è lecito immaginare che la speranza, condivisa a quel tempo da milioni di persone, che la guerra potesse portare ad una società più equa e addirittura senza classi, non rappresentasse solo un incentivo ideologico all’arruolamento; ma finì per essere anche una delle tante frecce a disposizione della propaganda alleata. Freccia che, per il 1945, aveva già da tempo colpito il suo bersaglio [10].

Questa non è una semplice ipotesi, ma un aspetto chiave per comprendere l’«inconscia falsificazione» di cui Orwell si autoaccusa nella London Letter del ’45; «inconscia falsificazione» che può essere spiegata tramite un’attenta lettura della stessa opera Orwelliana che più di tutte ha denunciato la falsificazione ideologica: 1984.

Orwell fu, come noto, un attento osservatore dei metodi di manipolazione ideologica di cui il potere da secoli si avvale, ma ciò non deve impedirci di tracciare una linea tra la sua vita e la sua opera e comprendere in profondità le ragioni delle falsificazioni che egli stesso, inconsapevolmente o meno, attuò. Per far ciò è però necessario liberarsi dell’immagine, un po’ agiografica, che molte edizioni italiane e operatori della comunicazione hanno concorso negli anni a creare dello scrittore inglese, ovvero quella di un uomo libero da ogni compromesso politico e disinteressato esaminatore del discorso dominante del suo tempo.

Come ci sarà modo di vedere, tale immagine è non solo falsa, ma anche causa di incomprensioni rispetto a determinati significati dell’opera orwelliana.

Dai suoi interventi degli anni Trenta fino agli anni caldi del Secondo conflitto mondiale, la conformazione ideologica di Orwell traspare ben definita. Essa è caratterizzata da una costante diffidenza nei confronti di qualsiasi manifestazione tradizionale e religiosa, cosa che emerge in particolare nel dibattito sulla guerra di Spagna [11]. Egli sembra inoltre restio ad interpretare qualsiasi dinamica sociale al di fuori degli schemi propri dell’ideologia marxista.

Sintomatico di tale atteggiamento è il suo giudizio sulla società Birmana, ritenuta in larga parte «ignorante» perché incapace di concepire l’esistenza secondo i principi nazionalistici e industriali occidentali [12]. Gli argomenti avanzati in questo senso dallo scrittore britannico non differiscono molto, in fin dei conti, da quelli che servirono da base ideologica, da un lato, ai fautori del colonialismo britannico e, dall’altra, a Carlo Marx per guardare con simpatia all’occupazione anglosassone dell’India [13]. A differenza dell’autore de Il capitale però, va detto, Orwell non fu mai un fervente colonialista e vide nelle varie occupazioni britanniche più che altro un’inevitabile e temporanea necessità storica [14].

D’altro canto, se la condizione dei disagiati di ogni latitudine fu una delle sue preoccupazioni principali, la sua attenzione per gli emarginati si espresse sempre nella prospettiva di una riorganizzazione della società ispirata alla sua formazione socialista e va pertanto inquadrata all’interno di un modello sociale ben preciso [15]. L’ideale di progresso civile fu infatti un fattore radicato in profondità nella coscienza dello scrittore inglese e va ricollegato agli ambienti intellettuali dell’Inghilterra della prima metà del Novecento con i quali egli venne a contatto. Tra questi ha un particolare rilievo quello animato dai coniugi ed economisti Webb, fondatori della rivista «New Statesman» [16] e tra i primi aderenti di spicco della Fabian Society.

È qui il caso, seppur di passaggio, di delineare la prospettiva socioeconomica di questo sodalizio culturale e metapolitico. Il modello di Stato che avevano in mente gli ideologi dell’organizzazione fabiana può essere sintetizzato nei termini di un’istituzione chiamata a farsi carico del benessere della società nel suo complesso, al punto, se necessario, di imporre tale benessere per legge. Si tratta non a caso di un aspetto molto presente negli articoli di Orwell degli anni Trenta [17]. Accentuando quella che in inglese viene definita Class Legislation, tale forma di socialismo auspicava degli apparati statali capaci di venire incontro alle esigenze di ogni classe sociale, e persino di ogni singolo individuo, per migliorarne le condizioni di vita.

Un articolo emblematico dell’approccio fabiano è Le basi necessarie della società; in esso, Sidney Webb presenta in maniera sintetica le sue teorie. Tra le asserzioni conclusive, vi si legge: «La mia tesi è che la base necessaria della società, nella complessità della moderna civiltà industriale, sia la formulazione e la rigida applicazione, in tutte le sfere dell’attività sociale, di uno standard minimo nazionale al di sotto del quale all’individuo, che gli piaccia o meno, non può essere concesso di scendere, e ciò nell’interesse della società nel suo insieme» [18].

Le teorie di Webb forniscono non solo elementi fondamentali per mettere a fuoco l’identità politica e culturale di Orwell, ma si prestano anche ad alcune considerazioni strettamente collegate all’opera dello scrittore nato a Motihari e, in particolare, a 1984. Leggendo con attenzione la tesi di Webb poc’anzi riportata, si può infatti facilmente comprendere quale sia l’idea di Stato promossa dai fabiani [19] ovvero quella di un’istituzione altamente efficiente e con diramazioni specializzate nei vari settori della società; idea, questa, nella quale Orwell non vide un eccesso di statalismo, ma al massimo una linea sterile e tutto sommato fin troppo moderata [20].

In ogni caso, quali che fossero i dissidi tra Orwell e l’élite intellettuale socialista del suo tempo, è proprio l’invadenza e l’intransigenza politica dello Stato che ritroveremo tragicamente rappresentata in 1984. L’immaginario che quest’opera ha trasmesso a generazioni di lettori non mostra altro che una spaventosa degenerazione dello stesso Progressismo, il volto repressivo emerso dalla volontà politica di omologare la società secondo i voleri e le esigenze di un’oligarchia che impone regole brutali e paradossali.

L’elemento di maggior rilevanza di 1984, come di gran parte dell’opera Orwelliana, va pertanto individuato nella rappresentazione e conseguente riflessione sulle dinamiche della repressione e, da lì, sulla natura del potere, tema ossessivo nella distopica Oceania, dove l’autorità viene concepita non solo come fatto politico e umano, ma anche come meccanismo di controllo delle pulsioni irrazionali e psicotiche delle masse, indispensabili al potere stesso per consolidarsi e conservarsi.

In una società massificata e soggetta a mutare disposizione ad ogni alterazione del discorso dominante, il potere non può che assumere il volto più degenerato e degenerante, facendo leva sulle fobie collettive nella negazione, più o meno implicita, di ogni autentica prospettiva metafisica. Non deve dunque sorprendere il fatto che nella distopia di Orwell il potere venga divinizzato [21]

Tale divinizzazione colma un vuoto. Il potere politico così come lo troviamo in 1984 comporta infatti un’imitazione, necessariamente grottesca, dell’onniscienza divina, la quale deborda in quello che è l’aspetto più originale e attuale dell’operazione narrativa di Orwell e cioè la manipolazione del passato [22].

In tale manipolazione, il potere costituito di Oceania domina e governa su tutto, offrendo alla popolazione sia i parametri a cui conformarsi sia delle tentazioni che possano condurre parte di essa ad abbracciare la via del dissenso. Ci troviamo dunque di fronte ad una vera e propria mistica del potere della quale Orwell ebbe certamente modo di fare esperienza negli anni della sua militanza politica e come uomo di apparato. Tale mistica è uno dei pochi aspetti religiosi, o per meglio dire pseudo-religiosi, che abbiano un ruolo di primo piano nell’opera Orwelliana. Essa s’impone ancora di più all’attenzione se si considera che Orwell non si dedicò mai, almeno nei suoi scritti, a profonde riflessioni di ordine religioso o spirituale.

Nondimeno, l’aberrante scenario di 1984 ci mostra, con plastica evidenza, come all’assenza di un’autentica spiritualità, sul piano individuale e su quello collettivo, non corrisponda mai una società razionalmente organizzata, bensì una collettività disciplinata tramite culti e riti che non sono altro che le manifestazioni esteriori di una pseudo-religione e di una spiritualità contraffatta.

Troviamo conferma di ciò nell’ammirazione fanatica per l’autorità, nell’odio superstizioso per i dissidenti, nel rituale dei due minuti d’odio nonché in una concezione propriamente dogmatica del Partito il quale è ritenuto e si ritiene eterno e onnisciente [23]. Nella falsificazione totalitaria a cui è dedito il Partito di 1984, spiccano dunque due elementi: l’assenza di qualsiasi richiamo ad una sfera autenticamente spirituale e religiosa, sostituita da un degradante fanatismo politico e, con riferimento alla manipolazione delle masse, la gestione totalitaria sia del consenso che del dissenso.

O’Brien, aguzzino di W. Smith, si dimostra ben consapevole di entrambi gli aspetti, e lo fa parlando del libro “fuorilegge” del fantomatico Goldstein. Dice infatti O’Brien: «Il programma che [il libro di Goldstein] espone è nonsense. Il segreto accumulo di conoscenza – una graduale diffusione di illuminazione – e infine una ribellione proletaria, il rovesciamento del Partito. Hai previsto da te stesso cosa dice. I proletari non si rivolteranno mai, né in mille né in un milione di anni. Non possono. Se ti sei mai affezionato a sogni di insurrezione violenta, devi abbandonarli. Non c’è modo che il Partito venga rovesciato. Il dominio del Partito è per sempre. Fa’ di ciò il punto di partenza di ogni tuo pensiero (TdA)» [24].

Le parole di O’Brien, oltre a confermare la concezione dogmatica e pseudo-religiosa del Partito del Grande Fratello e dunque del potere, ci riportano all’argomento centrale della London Letter del 1945: la trappola della guerra come rivoluzione che ha portato Orwell a compiere la sua «inconscia falsificazione». Come W. Smith viene a comprendere che è lo stesso Partito a instillare semi di rivolta nella popolazione – i «sogni di insurrezione violenta» di cui parla O’Brien – così Orwell ebbe modo di comprendere sempre più, all’interno dei servizi di propaganda occidentali, che è lo stesso potere vigente ad offrire speranze rivoluzionarie alla popolazione.

L’«inconscia falsificazione» ideologica che Orwell confessò sulla «Partisan Review» nel 1945 potrebbe dunque trovare, alla luce delle allusioni ai fatti storici presenti in 1984, una spiegazione ben precisa: sarebbe stato ovvero lo stesso establishment anglo-americano a diffondere – o a permettere che si diffondessero – delle manipolatorie illusioni rivoluzionarie alle quali lo scrittore inglese credette fermamente per anni, al punto da distorcere i fatti bellici e nutrire le illusioni rivoluzionarie dei suoi lettori.

Una tale interpretazione dell’opera giornalistica (e propagandistica) Orwelliana poggia, necessariamente, sull’idea che la vicenda distopica narrata in 1984 abbia carattere fortemente autobiografico. Ma, a ben vedere, non c’è ragione alcuna per escludere tale carattere; d’altronde tutte le opere di Orwell hanno una pervasiva componente autobiografica; a eccezione, forse, della Fattoria degli animali.

In ogni caso, non importa tanto stabilire se Orwell fu tra le vittime o tra gli artefici del processo di falsificazione dei fatti bellici che è stato qui ricostruito. Bisogna però chiedersi se, soprattutto dalla fine degli anni Trenta, egli non abbia seguito strategie comunicative dettate in buona parte dalla propaganda anglo-americana, tentando, con alterne fortune, di conservare la propria autonomia critica [25].

Se così fosse, la distopia orwelliana non rappresenterebbe solo la proiezione di un futuro in cui le parole significano il loro contrario e ogni valore autentico è stato pervertito; ma anche l’ammissione, seppur in forma romanzata, che il miraggio Socialista e rivoluzionario non fu altro che uno strumento nelle mani delle strutture del potere anglo-americano le quali, in determinati frangenti, se ne servirono ora per una ora per l’altra delle loro esigenze e finalità.

Vi sono peraltro analisi geopolitiche di Orwell, nelle quali la sua adesione alle strategie comunicative anglo-americane emerge in maniera inequivocabile. Si pensi ad esempio alla sua reazione allo scoppio dell’atomica in Giappone, così come viene espressa in Tu e la bomba atomica [26], articolo pubblicato a due mesi dallo sterminio di massa di Hiroshima e Nagasaki. Per quanto Orwell vi parli genericamente di «oligarchie autoelette», l’articolo si limita a commentare la tecnologia bellica nucleare da un punto di vista esclusivamente strategico, ma senza mai condannare l’utilizzo da parte americana di un ordigno di tale portata non già su un obiettivo militare, ma su civili inermi [27].

L’opera Orwelliana sembrava in ogni caso destinata a trovare ampio spazio nello scenario propagandistico. La fattoria degli animali, in particolare, si adattava perfettamente alle campagne antirusse intraprese dalla fine degli anni Quaranta, tanto che proprio l’intelligence americana lo fece tradurre in decine di lingue diverse e ne produsse un costoso cartone animato [28].

Per quel tempo però, ovvero dall’inizio del 1950, Orwell era già scomparso in un’appartata clinica di Londra, assistito da Sonia, la seconda moglie, sposata pochi mesi prima.

Scritto da Gianfranco Strazzanti

NOTE

  1. Il dipartimento per cui lavorò Orwell, dalla fine del 1941 all’inizio del ’43, si occupava di redigere e diramare bollettini destinati perlopiù all’India, i quali però analizzavano tutti gli scenari di guerra. Cfr. W.J. West, Introduzione a G. Orwell, Cronache di guerra, Leonardo Editore, Milano 1989, p. 8: «La scelta di Giorgio Orwell [come autore dei notiziari bellici della BBC, NdA] era apparentemente strana. Orwell, come scrisse egli stesso in una lettera di quel periodo, era un oppositore del governo, fermamente convinto che bisognasse restituire all’India la sua libertà il più presto possibile. Ma vedeva anche chiaramente che la dominazione da parte di un potere totalitario non anglofono avrebbe rappresentato per gli indiani un pericolo ben maggiore della semplice continuazione del dominio britannico per qualche anno ancora, fino al termine della guerra».
  2. 2. G. Orwell, London Letter, «Partisan Review», vol. 12 n. 1, inverno 1945, p. 77-82 (77) [si tratta del numero pubblicato a inizio 1945].
  3. 3. L’idea della guerra come atto rivoluzionario era stata d’altronde dominante negli ambienti politici a cui Orwell aveva aderito in Spagna, come il POUM e i movimenti anarchici attivi sulla scena della Guerra Civil. Cfr. G. Orwell, Omaggio alla Catalogna, Capitoli I-V, Mondadori, Milano 1993.
  4. 4. G. Orwell, London Letter, 8 maggio 1942, «Partisan Review», vol. 9, n. 4, luglio 1942, p. 279, TdA.
  5. 5. London Letter, inverno 1945, Ibidem, vol. 12 n. 1, p. 78, TdA.
  6. 6. Ibidem, p. 80.
  7. 7. Cfr. W. J. West, Introduzione a G. Orwell, Cronache di guerra, Op. Cit. in particolare pp. 23-24 per la gestazione di 1984.
  8. 8. Le “Freedom Station” erano le radio della propaganda alleata attive in territorio tedesco durante la Seconda guerra mondiale.
  9. 9. Va inoltre notato che, con l’avvento del governo Churchill, venne a cadere la distinzione tra propaganda “nera” e “bianca”, per la quale i propagandisti erano tenuti alla massima discrezione circa la loro identità (“black propaganda”) oppure potevano dichiararla pubblicamente (“white propaganda”). Con ogni evidenza, dall’inizio degli anni Quaranta, vi fu un netto cambiamento nella strategia comunicativa degli Alleati e l’assunzione di personaggi legati ad ambienti socialisti, o persino rivoluzionari, non fu più considerato un “tabù”. Va infine aggiunto che, con l’insediamento di Brendo Bracken come Ministro dell’Informazione (1941), la BBC godette di una relativa indipendenza nei confronti del dipartimento della censura. Cfr. S. Seul, British Radio Propaganda against Nazi Germany during the Second World War, University of Cambridge 1995, pp. 28-38.
  10. 10. Come lo stesso Orwell riconoscerà, durante le fasi inziali della guerra, figure di scrittori e intellettuali provenienti dalla sinistra rivoluzionaria vennero assimilate dalla BBC perché utili a lanciare l’azione bellica; mentre a partire dal 1943 esse vennero gradualmente allontanate dall’emittente; infatti «nell’arco dell’intero anno [1942] (…) c’è stata una decisa diffusione di blimpaggine e una tendenza, ben più consapevole, a far fuori i “rossi” che erano utili quando c’era bisogno di sollevare il morale, ma di essi ora si può anche fare a meno», da G. Orwell, London Letter, in «Partisan Review», Vol. X, n. 2, Marzo-Aprile 1943, pp. 178-183 (178), TdA. Blimpaggine è traduzione dell’originale Blimpishness; si tratta di un neologismo molto comune all’epoca di Orwell, costruito sul cognome Blimp; quest’ultimo si era a sua volta diffuso sull’onda del successo dal Colonello Blimp, personaggio delle vignette satiriche del disegnatore Davide Low (1891-1963). Obeso e istericamente reazionario, Blimp fu a lungo un personaggio proverbiale in Gran Bretagna e paesi anglofoni; con esso, si alludeva ironicamente agli esponenti della destra britannica più conservatrice.
  11. 11. Cfr. G. Orwell, Spilling the Spanish Beans (Spifferare tutti i segreti sulla Spagna) e The lure of profundity (Il fascino della profondità), rispettivamente in «New English Weekly», del 29 luglio e del 30 dicembre 1937.
  12. 12. Cfr. G. Orwell, Comment on exploite un peuple: L’Empire britannique en Birmanie (Come una nazione viene sfruttata: l’impero britannico in Birmania), «Le Progrès civique», 4 maggio 1929. In questo articolo, a proposito dei contadini birmani, Orwell scrive: «Non hanno ancora raggiunto quello sviluppo intellettuale necessario a divenire nazionalisti».
  13. 13. Cfr. K. Marx, The British Rule in India, «New York Herald Tribune», 25 giugno 1853.
  14. 14. Cfr. W.J. West, Introduzione a G. Orwell, Cronache di guerra, Op. Cit., p. 8.
  15. 15. Cfr. G. Orwell, Come una nazione viene sfruttata, Op. Cit., e Rudyard Kipling, «New English Weekly», 23 gennaio 1936.
  16. 16. La rivista venne fondata nel 1913 per iniziativa degli economisti Sidney and Beatrice Webb e del drammaturgo Giorgio Bernardo Shaw, tutti aderenti alla Fabian Society (cfr. note 18 e 19). Dal 1931 la rivista cambiò nome in «New Statesman and Nation» a seguito della fusione con il settimanale liberale «The Nation and Athenaeum». Nel 1964 tornò al nome originale.
  17. 17. Cfr. G. Orwell, Common Lodging Houses (Alloggi popolari), «New Statesman and Nation», 5 settembre 1932.
  18. 18. S. Webb, The Necessary Basis of Society, Fabian Tract no. 159, The Fabian Society, Londra 1911, TdA.
  19. 19. La Fabian Society venne fondata a Londra nel 1884; prese il suo nome da Quinto Fabio Massimo detto ‘il Temporeggiatore’, stratega romano che combatté contro Annibale e noto per la sua tattica bellica basata sull’attesa e il logoramento psicologico dell’avversario. La società fu determinante nella creazione del Partito Laburista inglese. I fabiani condividevano molte istanze dell’ideologia Marxista e Leninista, ma a differenza dei loro riferimenti culturali, non credevano in una presa del potere rapida per mezzo della rivoluzione, ma in una strategia da attuare sul lungo periodo. Il logo della società è un lupo nero travestito da pecora che regge una bandiera rossa con le iniziali F. S.
  20. 20. Cfr. D. J. Taylor, A. Smith, The Orwell Wars, «New Statesman», 29 maggio 2013 e G. Orwell, London Letter, 1 gennaio 1942, «Partisan Review», Vol. 9, n. 2, marzo-aprile 1942, pp. 156. L’oligarchia al potere in 1984 è stata da più parti interpretata come una sinistra parodia della Fabian Society. Si noti che nel 1941 Orwell fu invitato dai fabiani a tenere una conferenza dal titolo Culture and Democracy presso una loro sede. Da alcuni manoscritti di Orwell, pubblicati in AA.VV. Victory or Vested Interests? Routledge, Abingdon-on-Thames, UK, 1942, risulta che in seguito lo scrittore entrò in polemica con la Fabian Society per via delle numerose modifiche apportate alla trascrizione del suo discorso, pubblicato in una versione pesantemente alterata negli atti della conferenza.
  21. 21. G. Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2002, p. 284.
  22. 22. Una comparazione tra l’intervento divino sul passato secondo esponenti della teologia medievale e la manipolazione ideologica in 1984 è stata tentata da A. Possamai, Giorgio Orwell e il problema dell’onnipotenza divina. La modificabilità del passato in 1984, in «Philosophical Readings», IX, 3, Dip. Filosofia Ca’ Foscari, Venezia 2017, pp. 214-221.
  23. 23. Sulla contraffazione della religione e della spiritualità nella società moderna, i riferimenti possibili sono pressoché interminabili. Si veda ad esempio l’opera di René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi.
  24. 24. G. Orwell, 1984, HMH, New York 2021, p. 251.
  25. 25. Si noti che Orwell collaborò con i servizi d’informazione britannici fino agli ultimi anni della sua vita. Fece molto scalpore, in Inghilterra, la pubblicazione della famosa Orwell’s List, fornita dallo scrittore nel 1949 all’intelligence britannica e nella quale additava un gran numero di autori e uomini di cultura inglesi come soggetti non idonei a svolgere campagne anti-staliniste, offrendo un sintetico ritratto personale di ognuno di loro. In alcuni casi, tali ritratti risultarono non solo offensivi, ma anche piuttosto imprecisi. Cfr. J. Ezard, Orwell’s list of ‘crypto-communists’ to be released, «The Guardian», 10 luglio 2003 e D. Ross, List based on spite, «The Guardian», 28 giugno 2003.
  26. 26. G. Orwell, You and the Atomic Bomb, «Tribune», 19 ottobre 1945. Particolare degno di nota: in questo articolo Orwell tratteggia uno scenario geopolitico dominato da tre superstati e per certi versi molto simile a quello di 1984. Cfr. anche G. Orwell, London Letter, «Partisan Review», Vol. XII, n. 4, Autunno 1945, pp. 467-472 (472), TdA: «L’immediata resa del Giappone sembra avere modificato la mentalità della gente rispetto alla bomba atomica. All’inizio, tutti quelli con cui parlavo o mi capitava di sentire per strada erano semplicemente inorriditi. Ora iniziano a sentire che si può anche parlare di un’arma che può mettere fine a una guerra in due giorni».
  27. 27. Curiosamente, proprio in Tu e la Bomba atomica, lo scrittore fu tra i primi ad utilizzare la definizione di “guerra fredda”, una definizione destinata ad avere fortuna e nella quale, a voler seguire le logiche proprie di 1984, si potrebbe anche rinvenire un caso manifesto di bipensiero orwelliano.
  28. 28. Cfr. D. J. Leab, Orwell Subverted, Penn State University Press, Philadelphia, US 2007. Le opere di Orwell, più tardi, verranno utilizzate non solo dai servizi di intelligence anglo-americane, ma dalle fazioni e negli scenari politici più disparati. Cfr. S. Senn, All Propaganda is Dangerous, but Some are More Dangerous than Others: George Orwell and the Use of Literature as Propaganda, in «Journal of Strategic Security», vol. 8, n. 5, autunno 2015.

Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore, che non corrispondono necessariamente a quelle de "Lo Schiaffo 321". Immagini tratte dalla rete. Fonte: Ignota Scintilla

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