mercoledì 4 maggio 2022

Da Nusco (Av) a Mosca, quando Ciriaco De Mita lasciò a bocca aperta Gorbačëv | POLITICA

Da Nusco (Av) a Mosca (Urss)

Dall'Irpinia all'Accademia delle Scienze dell'Unione Sovietica. Era il 15 ottobre 1988 e Ciriaco De Mita, nelle vesti di Presidente del Consiglio andò a dare il suo contributo sulla cooperazione internazionale quando l'Impero Comunista nato dalla Rivoluzione Bolscevica era già in fase calante. Riportiamo il discorso integrale e la prefazione ad esso. 

Buona leddura.


Il Presidente del Consiglio si recava nella capitale sovietica, ricevuto calorosamente dal Segretario generale del Pcus, Michele Gorbačëv, per discutere sul futuro delle relazioni tra Est ed Ovest. Il 15 ottobre, presso l’Accademia delle Scienze, teneva un discorso di ampio respiro. 

Oggi, in piena guerra sulla frontiera orientale dell’Unione europea, questo straordinario discorso di Ciriaco De Mita – è noto che vi contribuì Ruggero Orfei, scomparso alcuni giorni fa – permette di cogliere amaramente la distanza tra le speranze di allora e la dura realtà del presente. Qui presentiamo un’analisi, ancora allo stato preliminare, dell’ambasciatore Radicati, all’epoca  Ministro-Consigliere all’ambasciata a Washington.

Ho letto con attenzione il discorso pronunciato da De Mita quasi 35 anni orsono (!) a Mosca. Il mondo attuale è ovviamente ben diverso, troppi ed estremamente importanti essendo stati i cambiamenti nel frattempo intervenuti. Di conseguenza, la descrizione che l’oratore fa della situazione ne risente e non poco.

Ciò detto, il concetto che mi ha colpito è stato laddove l’oratore sottolinea la grande forza di attrazione che la Comunità Europea stava esercitando, in particolare dal punto di vista economico, nei confronti degli altri Paesi europei; le conseguenti pressioni per nuovi allargamenti nonché la crescita dei rapporti della Comunità con Paesi a diverso sistema economico. 

Tutto questo avrebbe potuto portare ad un processo di integrazione e rafforzamento economico in grado di generare, se privo di disegno politico, ad uno squilibrio in materia di sicurezza.

È quanto, in un certo senso, è avvenuto: l’allargamento dell’Unione Europea ai paesi ex-socialisti ha via via provocato uno  squilibrio nei rapporti Est-Ovest sicuramente sgradito a Mosca (Putin). Interessante, anche il riferimento alle “oscillazioni” tra aspirazioni disarmiste e spinte riarmiste in grado di generare preoccupazioni circa il futuro dei rapporti Est-Ovest, con la necessità, pertanto, di elaborare una politica della sicurezza che le eviti e/o ne minimizzi l’impatto. Al riguardo, mi chiedo se ciò sia stato, realmente ed in forma continuativa, realizzato.

Infine, rimarchevole l’auspicio – rimasto, purtroppo, tale – di un piano di cooperazione tra Est ed Ovest (sulla falsariga del Piano Marshall), con i Paesi dell’Europa Orientale, se autori questi ultimi di una proposta “coerente e credibile” intesa a creare una maggiore cooperazione economica fra le due parti. In conclusione, il discorso di De Mita – ripeto – pur riflettendo la situazione di quell’epoca (dopo l’avvento di Gorbacev), presenta più di uno spunto meritevole di riflessione.

Occorre tornarci sopra.

Discorso del Presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita, alla Accademia delle Scienze dell'Unione Sovietica (15 ottobre 1988).

Accademici, Autorità, Signore e Signori

sono particolarmente lieto di poter illustrare, in questa sede prestigiosa della cultura mondiale, e su alcuni grandi problemi internazionali, il punto di vista di un popolo e di un Governo occidentali che vi sono amici in questa fase di grandi speranze e trasformazioni che anima il vostro Paese.

Stiamo vivendo un periodo di mutamenti profondi. In meno di cinquant'anni il globo si è arricchito di Stati indipendenti e sovrani. Ma si sono anche accentuate le interdipendenze planetarie.

Abbiamo dato il via alla conquista dello spazio, è iniziata l'era nucleare. Ma si sono anche aperti grossissimi problemi di rispetto della Terra, dell'ambiente, degli equilibri ecologici. Sono notevolmente aumentati la ricchezza e il benessere di una parte crescente dell'umanità. Ma si sono acutizzate angosciose situazioni di sottosviluppo e di povertà. Nel mondo si è estesa una fittissima rete di comunicazioni e mai come oggi sappiamo tanto di tutti e così rapidamente. Ma l'intolleranza ideologica e religiosa ha assunto nuove e inquietanti forme aggressive.

La lunghezza della vita media ha compiuto un grande balzo in avanti, grazie ai progressi della medicina. Ma nuove malattie si propagano nel mondo, nuove minacce allo salute dei popoli vengono dalla criminale diffusione delle droghe. Bussano alle nostre porte una continua innovazione tecnologica, una nuova rivoluzione industriale e culturale. Tuttavia avvertiamo che il cambiamento crea anche nuovi problemi e nuove sofferenze.

E non possiamo dimenticare che questa nostra era, ricca di mutamenti e di promesse, ha visto sin dalla fine del Secondo conflitto mondiale la persistenza della guerra. Centinaia di guerre e guerriglie di vario tipo hanno causato milioni di morti, senza contare le distruzioni, le sofferenze, i profughi, la violazione di basilari diritti umani e civili. Nello stesso periodo, tra Est e Ovest, un equilibrio armato e minaccioso ha visto alternarsi periodi di guerra fredda a periodi di incerta distensione. La necessità e la speranza del futuro sono quelle di mettere progressivamente fine alle guerre. Per questo sarà necessario andare oltre la distensione finora sperimentata tra Est e Ovest, e organizzare una nuova politica di comune responsabilità nei confronti dei grandi problemi globali di sviluppo e di sicurezza.

Passare dal confronto (sia pure «freddo») alla corresponsabilità è difficile e delicato. Ne conosciamo tutti le premesse: una crescente fiducia reciproca e una crescente cooperazione su obiettivi comuni ben identificati. In questo quadro il punto più delicato, che intendo discutere con voi in questa occasione, è quello europeo.

Cos'è l'Europa? Definizioni, numerose, sono state tentate nel tempo. Da quelle meramente geografiche a quelle di tipo culturale, religioso, linguistico e politico. Nessuna, in realtà, sembra veramente riuscire a cogliere tutti gli aspetti di questo quesito.

Penso che l'Europa non si debba tanto definire geograficamente, quanto politicamente e strategicamente, come un punto di riferimento dell'ordine internazionale. Un'Europa quindi - senza frontiere: in cui si armonizzino le grandi tradizioni culturali di ciascuna nazione - e certamente quella italiana e quella russa rappresentano due elementi fecondi ed insostituibili.

Recentemente il vostro Presidente e Segretario Generale Michele Gorbaciov, riprendendo una definizione che ci giunge dalla tradizione culturale russa, ha espresso il concetto di Europa come «Casa Comune». Ne capisco certo, e ne apprezzo, il senso positivo, distensivo, di mutua comprensione e di collaborazione. Ma in realtà la nostra «casa comune» non può limitarsi all'Europa geografica ma va allargata ai due grandi Paesi situati sull'altra sponda dell'Oceano Atlantico ed in prospettiva al mondo intero.

È, credo, in questo quadro globale che vanno fissate le nostre politiche e i nostri obiettivi, e gli strumenti più efficaci per raggiungerli. Qui si pone il problema di sapere quali scelte compiremo in Europa occidentale, e come potranno influenzare il risultato finale e potranno essere aiutate o ostacolate dalle scelte degli altri protagonisti.

In Europa occidentale abbiamo dato inizio da molti anni a un grande processo di integrazione che ha l'ambizione di superare le antiche e terribili divisioni del passato, senza allentare i nostri vincoli con gli Stati Uniti ed allo stesso tempo con la ferma intenzione di far crescere i nostri rapporti con l'URSS.

Questo processo va avanti, e va avanti rapidamente in campo economico. Abbiamo preso la decisione di realizzare, entro il 1992, un vero mercato interno senza barriere tra tutti i Paesi della Comunità Europea: ora stiamo attuando tale decisione già presa, e stiamo constatando la necessità di andare oltre, nello spirito dell'Atto Unico Europeo, pensando anche a una moneta europea e a una banca centrale europea. Quali che siano i possibili compromessi e ritardi, tutti prevediamo un deciso balzo in avanti dell'integrazione economica della Comunità Europea.

Si creeranno nuove ricchezze. Secondo un recente studio elaborato dalla Comunità Europea, la sola unificazione del mercato interno, dopo cinque o sei anni, dovrebbe portare a un aumento aggiuntivo di quasi 5 % del Prodotto Interno Lordo e una diminuzione del 6 % dei prezzi, oltre alla creazione di circa 2 milioni di nuovi posti di lavoro. Questo è un grande fatto nuovo. Tuttavia esso si colloca in un ritardo della integrazione politica: abbiamo o avremo presto l'Europa economica. Non è ancora chiaro se avremo allo stesso tempo un'Europa politica.

Eppure questo secondo obiettivo è assolutamente necessario. Proverò a indicarne due ragioni:

- è necessario evitare che l'integrazione economica si trasformi in puro e semplice protezionismo; al contrario la Comunità Europea deve svolgere un deciso ruolo propulsivo nello sviluppo internazionale;

- è necessario che la grande potenza economica della Comunità non si regga sulle gambe di un nano politico.

L'Europa politica, lo sviluppo di un'entità politica europea a partire dalla Comunità Europea e dalle altre istituzioni europee occidentali esistenti, è il nostro necessario strumento rappresentativo: quello che legittima e giustifica il maggiore contributo che siamo chiamati a dare per la pace e per lo sviluppo. D'altra parte una tale entità politica è necessaria anche per consentire uno sviluppo migliore, più equilibrato e ricco, dei rapporti Est-Ovest.

Tali rapporti sono destinati a intensificarsi. E già crescono sul piano umano, culturale commerciale e della cooperazione economica, e stanno avendo un'accelerazione importante anche in campo politico e militare. In questo quadro voglio sottolineare l'importanza dei legami finalmente stabiliti tra la Comunità Europea e il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon). In particolare riteniamo che l'avvio dei rapporti diretti tra la Comunità Europea e l'Unione Sovietica sia un grande fatto innovativo, in qualche modo annunciato e preparato sin dal 1975, quando Aldo Moro firmò l'Atto Finale della Conferenza di Helsinki sia nella sua qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, sia in quanto Presidente di turno del Consiglio dei Ministri della Comunità Europea. Sin da allora i Paesi europei occidentali ritenevano infatti che la Comunità Europea potesse e dovesse avere un grande ruolo nello sviluppo dei rapporti Est-Ovest.



L'intuizione importante e geniale di allora fu di comprendere che esistono tre settori (i tre «cesti» di Helsinki) tra loro collegati e paralleli. Dobbiamo oggi continuare a fare progressi congiuntamente in questi tre campi, (sicurezza, economia, cultura e diritti dell'uomo) anche dopo la conclusione della Conferenza di Vienna. Tutto questo è positivo. Ma non vogliamo ignorare anche le incertezze che potrebbero bloccare il processo, o addirittura invertire la linea di tendenza.

Siamo perfettamente consapevoli, ad esempio, della grande forza di attrazione che la Comunità Europea sta esercitando, in particolare dal punto di vista economico, nei confronti degli altri Paesi europei. Le pressioni per procedere a nuovi allargamenti della Comunità sono crescenti. Come crescenti sono i rapporti della Comunità con Paesi a diverso sistema economico.

La progressiva compenetrazione delle economie europee dell'Est e dell'Ovest è una tendenza irreversibile. L'interdipendenza sta rapidamente sostituendo le vecchie barriere autarchiche. Il mondo sempre più integrato delle comunicazioni e delle informazioni sta avvicinando le percezioni e le aspirazioni della gente, in particolare dei giovani. Vecchie frontiere che sembravano di ferro si rivelano di cartapesta.

Un processo di integrazione e rafforzamento economico in Europa, se privo di un disegno politico, potrebbe creare tendenze centrifughe. Con il rischio di grossi e improvvisi squilibri, tali da invertire brutalmente il processo. Potremmo trovarci nel circolo vizioso che già in passato ha innescato l'alternanza tra fasi di distensione e di confronto. Dal punto di vista dell'Europa occidentale, una testa politica è necessaria anche per conseguire ulteriori progressi sulla strada della sicurezza reciproca e del disarmo.

Si tratta di andare molto al di là del problema di come ridurre carri armati o divisioni di fanteria. In realtà, noi tutti siamo oggi impegnati nel grande compito di ripensare la sicurezza europea secondo nuove formule, che vorremmo più difensive che offensive, meno minacciose di quelle attuali, più stabili e verificabili.

Questo è l'obiettivo dei negoziati che si dovranno aprire dopo la definizione del mandato sulle armi convenzionali a Vienna. La presenza di tanti armamenti che si fronteggiano fra Est e Ovest ci impone responsabilità nel definire iniziative lungimiranti.

Il nostro obiettivo è quello di far crescere la fiducia reciproca. Solo in questo modo potremmo anche arrivare a ridurre i nostri armamenti. Riduzioni basate sul sospetto o sul timore possono essere facilmente aggirate, e comunque sono destinate a creare una situazione più pericolosa e instabile, come la sfiducia nata dalla mancata riduzione delle armi nucleari strategiche che ha accelerato la ricerca di nuovi sistemi difensivi.

La continua oscillazione tra aspirazioni disarmiste che ignorano o sottovalutano l'importanza di mantenere gli equilibri difensivi, e le spinte riarmiste che esasperano la necessità di rafforzare la propria sicurezza unilaterale, generano obiettive preoccupazioni circa il futuro della distensione e della cooperazione Est-Ovest.

Dobbiamo considerare gli armamenti anche nel loro profondo significato politico. Le armi non hanno solo un valore militare. Esse sono parte integrante della politica estera e degli equilibri politici. Il disarmo, dunque, non può basarsi soltanto sull'eliminazione o riduzione di alcune categorie di armi. Deve offrire una vera alternativa di sicurezza, migliore della precedente, per tutti noi. Si tratta, quindi, di elaborare una politica della sicurezza che eviti oscillazioni improvvise tra periodi di disarmo e di riarmo.

Per questo l'Italia ha sempre rifiutato le accuse di bellicismo o di riarmo che hanno accompagnato sia la decisione, presa nel 1979, di dispiegare gli euromissili, sia quella, presa dal mio Governo, di accettare la richiesta della Nato di ospitare in Italia la base logistica degli aerei F.16 che deve abbandonare la Spagna.

Tali scelte hanno seguito una chiara logica di mantenimento degli equilibri e della capacità difensiva della Nato e sono state volte a evitare che improvvise carenze operative e debolezze strategiche finissero per bloccare definitivamente il processo di distensione e di controllo degli armamenti, iniziando una nuova spirale di instabilità e di riarmo. L'accordo, concluso a Washington per eliminare gli euromissili, a Est e a Ovest, ci conferma della giustezza di questa linea.

Il disarmo, dunque, può nascere solo dalla stabilità, dalla sicurezza, dall'equilibrio. Queste sono le premesse necessarie per quella fiducia politica e quella cooperazione che sole possono garantire risultati efficaci nel lungo periodo.

Vi sono molte ragioni per essere favorevoli a una maggiore cooperazione politica tra i Paesi dell'Europa occidentale che sono anche membri della Nato. Ci sembra, ad esempio, che tale strada possa condurre più rapidamente e meglio di altre alla creazione di quella «testa politica» dell'Europa che l'Italia ritiene necessaria. Da questo punto di vista una maggiore integrazione militare in Europa occidentale è anche funzionale in un quadro di migliori rapporti Est-Ovest, per passare dalla fase di una distensione ancora reversibile alla fase di una effettiva corresponsabilità e cooperazione nella sicurezza.

Lo sviluppo di un'Europa occidentale più integrata è il modo migliore per sconfiggere quelle tendenze nazionalistiche che all'Est come all'Ovest potrebbero speculare sui timori del mutamento per tentare di turbare la stabilità degli equilibri politici europei.

L'obiettivo deve essere quello di far partecipare pienamente l'Europa occidentale alla costruzione del nuovo sistema di governo dei problemi economici e di sicurezza globali che è reso necessario dal crescere dell'interdipendenza. Il mondo ha bisogno delle ricchezze, delle tecnologie, della cultura, delle idee e degli uomini dell'Europa occidentale, almeno quanto l'Europa ha bisogno del resto del mondo. Ma un tale contributo può essere assicurato in modo positivo solo se organizzato attorno a una politica, messo a fattor comune, e quindi anche in qualche modo integrato.

L'Europa occidentale non è né può essere terra di conquista e non è neanche una piattaforma di lancio per nuove avventure imperiali. È tuttavia uno dei luoghi dove più si concentra il potere politico ed economico. E noi riteniamo che questo potere debba essere amministrato e governato.

A queste condizioni, sarà possibile pensare a piani più ambiziosi, a obiettivi più globali. Le grandi scadenze dell'Europa occidentale sono oggi quelle della unificazione economica, che registrerà un irreversibile passo in avanti entro il 1992, e quelle di una crescente integrazione politica, che è nelle aspirazioni della stragrande maggioranza dei Paesi europei, e che già oggi si delinea attraverso molteplici strade bilaterali e multilaterali.

Per raggiungere tali obiettivi, è necessario un contesto di rapporti Est-Ovest che agevoli la ricerca di un effettivo equilibrio militare con la eliminazione degli squilibri esistenti e renda, quindi, possibile la riduzione bilanciata, concordata e controllata delle forze militari, senza intaccare la credibilità delle rispettive strategie difensive. Su questa base, sarà possibile elaborare quelle che ho definito le politiche di corresponsabilità fra Est e Ovest.

Accademici, Autorità, Signore e Signori

È ormai necessario andare anche oltre l'attuale fase di ripresa dei rapporti economici. La Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa ha stabilito i criteri generali, il quadro politico, che può e deve rendere possibile la crescita dell'interdipendenza. Un interlocutore europeo occidentale più integrato politicamente, e in grado di mobilitare maggiori risorse e strumenti operativi più efficaci, può fornire le sostanza necessaria a questo processo. Ma esso richiede anche un grande contributo da parte orientale.

L'esempio del Piano Marshall è suggestivo come precedente di collaborazione economica internazionale. Ma non si può riprodurre meccanicamente uno strumento o una soluzione che è valsa per altri tempi e altre situazioni. Semmai esso può valere come indicazione di carattere più generale. Negli anni del dopoguerra i Paesi europei che accettarono il Piano Marshall riuscirono a sviluppare economie più aperte e meno autarchiche che nel passato, e diedero il via al loro processo di integrazione. In tal modo quegli aiuti economici ebbero un effetto esponenziale rispetto alla loro consistenza: furono il seme da cui nacque l'immensa ripresa economica di quegli anni Cinquanta e Sessanta.

Un piano di cooperazione economica tra Est e Ovest oggi, potrebbe fare riferimento a quel metodo: non l'imposizione dall'esterno di comportamenti, scelte e linee di sviluppo, ma la maturazione e la libera decisione da parte dei Paesi interessati. I Paesi dell'Europa orientale, l'Unione Sovietica, devono quindi arrivare a proporre un piano coerente e credibile di futura maggiore cooperazione economica tra Est e Ovest.

Questioni quali la convertibilità delle monete, la libertà di circolazione delle persone, delle cose e dei capitali, i diritti civili, la certezza delle leggi, fanno evidentemente parte di questo quadro necessario. E immediatamente dopo viene la necessità di sviluppare grandi progetti economici transnazionali, che sfruttino a pieno le sinergie esistenti nella comunità socialista e rendano possibile una cooperazione reale di questa con la Comunità Europea e il mercato interno unificato che avremo dopo il 1992.

Sono scadenze ravvicinate, ma non impossibili. Esse possono essere adeguatamente aiutate da parte occidentale. Ma tali aiuti possono essere utili solo se verranno a inserirsi nell'ambito di un chiaro piano d'azione di lungo termine. E le promesse evocate da una collaborazione di tale ampiezza non sono certo trascurabili in nessuno campo.

Su queste basi sarà possibile lavorare in comune per tentare di porre fine, limitare o comunque ricondurre progressivamente a composizione le crisi mondiali. Il rilancio delle Nazioni Unite, in questo ultimo anno ci indica la strada da percorrere e ricorda a tutti la funzione insostituibile di questa grande istituzione. Ma anche le Nazioni Unite sono destinate a subire l'andamento dei rapporti Est-Ovest

si rafforzano e agiscono con efficacia quando questi sono positivi; si indeboliscono e si ritirano in una sorta di letargo quando questi sono negativi. Passare della distensione a una crescente corresponsabilità globale significa anche porre fine a queste incertezze, e fornire alle Nazioni Unite la continuità e il consenso che sono loro necessari.

Accademici, Autorità, Signore e Signori

Stiamo vivendo un momento particolare, di grande rinnovamento in ogni campo. La cultura tecnologica del nostro tempo ci induce a sollecitare uno sforzo ulteriore perché le applicazioni della ricerca non vengano piegate a fini di violenza ma indirizzate verso destinazioni di pace, di convivenza costruttiva. Ritengo possibile un grande cambiamento purché si faccia uno sforzo per organizzarlo.

Mi pare che sia giunto il tempo in cui possa applicarsi alle opere di pace tutta l'intelligenza riversata nell'elaborazione di sistemi di guerra e di istituzioni repressive. Sono secoli di storia sui quali riflettere per compiere una vera inversione che possa portarci a un sistema di civiltà diverso. Oggi le tecnologie sono in grado di darci un mondo nuovo. Ma occorre volerlo e per attenerlo bisogna programmarlo.

Non si tratta di ripetere un Rinascimento d'élite, ma di favorire un nuovo Umanesimo diffuso in cui tutte le persone consapevolmente divengano più padrone del proprio futuro sperato, creatrici di un mondo più sano, centrato sull'uomo, quale soggetto di diritti inalienabili. Sta a noi essere governanti saggi e responsabili al fine di aprire la strada a questa nuova era.

Per dire la Vostra, contattateci all'indirizzo di posta elettronica caudiumpatrianostra@gmail.com oppure tramite Twitter @SchiaffoLo. Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore, che non corrispondono necessariamente a quelle de "Lo Schiaffo 321". Immagini tratte dalla rete. 



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