martedì 12 ottobre 2021

LA “LIASON DANGEREUX” tra Giorgio e Benito Amilcare Andrea | STORIALTERNATIVA

Sorel e Mussolini: una “liason dangereux”

SOREL E MUSSOLINI: UNA “LIASON DANGEREUX”

Giorgio Sorel è stato, talvolta, avvicinato al nazionalismo francese, talaltra alla complessa galassia prudhonistica, più spesso ricondotto con serenità al recinto dove, almeno nell’ultima parte della propria vita, esso stesso di collocava, vale a dire nel solco del socialismo marxista.

Arcinoti sono gli apprezzamenti che personaggi antimarxisti e talvolta antisocialisti hanno rivolto a Giorgio Sorel. Mussolini lo definiva, in un articolo del Popolo d’Italia del 1909, “Notre maitre”, e più in basso lodava il suo Le riflessioni sulla Violenza sostenendo che tale opera convincesse gli uomini che “la vita è sacrificio, lotta, conquista, un continuo superare se stessi”. Temi, questi, molto presenti nella dialettica Mussoliniana, che hanno trovato paternità putativa nelle riflessioni precedenti dei futuristi (anch’essi ammiratori di Sorel, in particolare attorno alle riviste La Voce e Leonardo) e successivo sfogo nella polemica spirituale alla morale borghese (“I tre cazzotti alla borghesia”) e alle plutocrazia occidentali.

Mussolini aveva avuto la possibilità di leggere Sorel in Svizzera, durante il suo soggiorno lì, tra il 102 e il 1904. Il futuro Duce apprezzò particolarmente non solo la concezione non materialistica dello scontro di classe, perfettamente inseribile nella critica contestuale gli eccessi di entrambe le deviazioni (del Capitale e della rivendicazione operaia) che già maturava nel cuore del Fascismo, e la concezione taumaturgica della violenza, capace di rilanciare il processo di scontro tra classi (ma che in Mussolini doveva servire a rilanciare per intero il discorso della lotta nazionale contro le potenze esterne e quelle disgregatrici interne).

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Sia per Mussolini che per Sorel la violenza non è altro che un modo attivo di far ripartire la macchina della Storiasedata per Sorel dall’arrendevolezza della borghesia che, cedendo su alcuni punti laterali del programma operaio, aveva, irrazionalmente, ingabbiato il proletariato in un gioco al ribasso, nel quale esso si accontentava di agire all’interno della pratica democratica e di dialogo imposta dalla strana alleanza grandi proprietari/”umanisti” (coloro cioè che, per Sorel, anteponevano una lettura morale e idealistica dello scontro tra sfruttati e sfruttatori ad una lettura materialistica). Mussolini trasporrà questa dialettica della violenza, carpendone il significato potenzialmente idealistico e spiritualistico, dall’agone dello scontro di classe a quello dello scontro nelle classi, dove la violenza come pratica quotidiana (ancor prima che politica) doveva servire a fare la cernita tra una borghesia e un proletariato patriottici e una borghesia invece incline al compromesso internazionale e un proletariato privo di amor patrio.

Risulterà, ad una lettura più specifica, che la similitudine si limita alla macrometodologia. Se per infatti Sorel utilizza la categoria di violenza come tramite attraverso il quale spezzare il delirio pernicioso che ha avvolto la dialettica proletariato/borghesia (che in Sorel rimane inquadrata materialisticamente), Mussolini lo utilizza come mezzo prediletto proprio, in ultima analisi, per evitare questa divisione in classi. Vediamo infatti come si possa intendere in Sorel l’uso della violenza:

«Si concederà ai partigiani della bontà che la violenza può ostacolare il progresso economico, e , anche, se passa certi limiti, per la moralità. Senonché, siffatta concessione, non può essere opposta alla dottrina che qui si sostiene: perché io considero la violenza soltanto dal punto di vista della sue conseguenze ideologiche. E’ certo che per far sì che i lavoratori considerino i conflitti economici come immagini scolorite della battaglia che deciderà dell’avvenire, non è necessario che si abbia un gran sviluppo della brutalità, e che il sangue sia versato a fiotti. Se la classe capitalistica è energica e afferma senza posa la sua volontà di difendersi, il suo atteggiamento francamente e lealmente reazionario contribuisce, almeno quanto la violenza proletaria, a mettere in luce la divisione in classi, base di tutto il socialismo»

Giorgio Sorel, Considerazioni sulla violenza, pp. 247-248

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In definitiva ciò che distanzia Mussolini e Sorel è proprio l’obbiettivo metodologico (intrinseco) che la violenza deve ottenere. Inoltre, mentre per Sorel la violenza ha un valore sì idealistico, ma inserito in un discorso di carattere materialistico e di scontro tra opposti bisogni sociali, per Mussolini la violenza ha un valore estrinseco, dal momento che rovescia l’Equilibrio (che per Mussolini era sintomo della viltà che la democrazia aveva imposto al popolo italiano) e rilancia la vitalità. Prima di me molti storici hanno fatto luce sulla filiazione quasi diretta tra la morale futurista e quella fascista. Anche nell’uso della violenza (anzi, soprattutto in questo) si può tracciare un file rouge che va dal manifesto su Le Figaro del 1909 e la vita culturale mussoliniana. Condensando, prima che pratica politica, per Mussolini la violenza “non è qualche volta morale […] la nostra violenza è risolutiva di una situazione cancernosa, è moralissima e sacroscanta e necessaria”.

Altro punto centrale nella cosmologia della violenza in Sorel (e Mussolini) è la teoria del Mito. Per il sindacalista francese il Mito come concetto politico è strettamente collegato all’idea di Sciopero. Sorel, infatti, per “non mischiare utopia e pensiero serio” sostiene che il Mito possa vivere solo se sue riproduzioni parziali possono sussistere anche nei momenti in cui l’avversario è comunque resiliente. E’ importante per Sorel che il mito trovi un applicazione quasi giornaliera, per impedire che diventi manipolabile come tensione collettiva annacquata. Dice Sorel, riguardo al concetto di Mito:

«Tuttavia noi non sapremmo agire senza uscire dal presente, senza rappresentarci questo avvenire che sembra condannato a sfuggire, per sempre, alla nostra comprensione. L’esperienza ci prova che le costruzioni d’un avvenire, indeterminato nel tempo, possono avere una grande efficacia e presentare pochissimi inconvenienti, quando abbiano una certa natura. Ciò accade quando si tratta di miti, che racchiudano le tendenze più spiccate d’un popolo, d’un partito, d’una classe; che, con la tenacia propria degl’istinti, si presentino allo spirito, in tutte le circostanze della vita; che, infine, diano un aspetto di piena realtà alle speranze di prossima azione, su cui si fonda la riforma della volontà.»

Giorgio Sorel, ivi, p. 180

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Per il Fascismo, e per Mussolini in particolare, il mito sarà soprattutto un artificio oratorio e un programma di intenti elastico. Anche qui, sempre sulla falsariga del processo di spiritualizzazione e alleggerimento dei temi soreliani, che in Mussolini sono traghettati da un materialismo dialettico e scanzonato ad un puro idealismo ortopratico, Mito non è una ripetizione di azioni di scontro (scioperi) continui, ma adesione incondizionata ad una realtà futura che possa retroplasmare le menti delle masse. In questo Mussolini fonde abilmente il mito della Guerra col mito della Rivoluzione, in modo non estemporaneo, se si pensa all’intero filone dell’interventismo socialista che faceva coincidere l’Italia al fronte con un'Italia de facto rivoluzionaria. La Guerra aumenta la disponibilità della massa all’uso della forza, esaspera le condizioni e favorisce, al ritorno dal fronte, un continuo dell’uso della violenza, che stavolta si rivolge verso la cricca governativa e la “demoplutocrazia”.
Quindi, riassumendo, Sorel trascende in Mussolini attraverso la Violenza. Come dice lo stesso Duce, in un discorso del 1914, teso a smontare le tesi non interventiste:

«Giorgio Sorel diceva che il socialismo è una cosa terribile, grave, sublime e non un esercizio di politicanti che fanno lo sconcio comodo dei loro mercati quotidiani. Se il socialismo è forza, è sacrificio, è tragedia, noi non possiamo seguire coloro che credono di spaventarci innanzi alla guerra coll’idea delle stragi, del sangue, del sacrificio»

Benito Mussolini, Discorso pronunciato a Genova nel salone dell’Università Popolare il 28 dicembre 1914

Concludendo, la parentela politica tra Sorel e Mussolini, che deve ancora essere indagata, non passa per l’adesione di Sorel a tesi pre-fasciste (ancorché Sorel si beasse d’esser stato letto dal Duce, come testimoniano gli scritti riportati da M.Missiroli nell’antologia “L’Europa sotto la tormenta”) ma per l’infatuazione che Mussolini prova per ciò che c’è di meno ortodosso e conseguente in Sorel: l’azione come atto-motore dello scontro sociale, e non come sua epitome.

Scritto da Lorenzo Centini*


*Torquemada è una rivista di inquisizione telematica, uno spazio condiviso dove esprimere il proprio pensiero in modo libero, ben argomentato ma soprattutto incendiario. Attivo online dal 2014, Torquemada raccoglie prevalentemente i contributi di studenti e ricercatori di varie Università, dalle idee anche radicalmente diverse, ma con la stessa fervida volontà di comunicare e confrontarsi. Non temiamo il dibattito tra pensieri forti: le nostre pagine saranno aperte costantemente a nuove elaborazioni e nuovi contenuti accomunati dallo stesso aspro spirito inquisitore e dalla stessa ardente voglia di confronto. Che abbia inizio l'autodafé! (presentazione)

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